Base giuridica: art. 78 § 2, lett. a) e b) TFUE


La Direttiva Qualifiche stabilisce norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta.

Oltre a ribadire i principi che ispiravano la Direttiva 2004/83/CE, la nuova Direttiva Qualifiche cerca di realizzare un maggiore ravvicinamento delle norme relative al riconoscimento e agli elementi essenziali della protezione internazionale.
In proposito, va ricordato come la “vecchia” Direttiva Qualifiche fosse considerata generalmente come lo strumento meno problematico fra quelli approvati durante la c.d. “prima fase” del Sistema europeo comune di asilo. Pertanto, i passi in avanti fatti dalla Direttiva 2011/95/UE non sono molti e sono dovuti principalmente alla giurisprudenza, tanto della Corte europea dei diritti dell’uomo, quanto della Corte di Giustizia dell’Unione europea.
Eppure, soprattutto in alcuni casi, non si tratta di modifiche di secondaria importanza.

Vediamo dunque la nuova Direttiva Qualifiche più nel dettaglio.



Per capi, la Direttiva Qualifiche contiene:

– disposizioni generali (Capo I): obiettivo, definizioni, disposizioni più favorevoli;
-disposizioni sulla valutazione delle domande di protezione internazionale (Capo II): esame sui fatti e sulle circostanze, bisogno di protezione sorto sur place, responsabili della persecuzione o del danno grave, soggetti che offrono protezione, protezione all’interno del Paese di origine;
– disposizioni riguardanti lo status di rifugiato (Capi III e IV): requisiti per essere considerato rifugiato (atti e motivi di persecuzione, cessazione, esclusione); status di rifugiato (riconoscimento, revoca, cessazione o rifiuto del rinnovo);
– disposizioni riguardanti la protezione sussidiaria (Capi V e VI): requisiti per la protezione sussidiaria (concetto di “danno grave”, cessazione, esclusione); status di protezione sussidiaria (riconoscimento, revoca, cessazione o rifiuto del rinnovo);
– contenuto della protezione internazionale (Capo VII): protezione dal respingimento, informazioni, mantenimento dell’unità familiare, permesso di soggiorno, documenti di viaggio, accesso all’occupazione, all’istruzione, alle procedure di riconoscimento delle qualifiche, assistenza sociale, assistenza sanitaria, disposizioni riguardanti i minori non accompagnati, accesso all’alloggio, libera circolazione, accesso agli strumenti di integrazione, rimpatrio. 

Queste a nostro avviso le principali novità apportate dalla nuova Direttiva Qualifiche rispetto alla precedente:


Disposizioni generali:

  • non si parla più di norme minime, in linea con le nuove basi giuridiche previste nel Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea (in particolare, dall’art. 78 TFUE) ma semplicemente di “norme” (art. 1). Ciò non toglie che agli Stati è lasciata sempre facoltà di introdurre o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli (art. 3);
  • la definizione di “familiari” è allargata al padre, la madre o altro adulto responsabile del beneficiario di protezione internazionale minore non coniugato (art.2, lett. j, terzo trattino). Si noti che la Commissione aveva  proposto di allargare ulteriormente la nozione ad altri membri;


In materia di valutazione delle domande:

  • quanto ai soggetti che offrono protezione (art. 7), si chiarisce che la lista è esaustivanel caso in cui non si tratti dello Stato, ma di partiti o organizzazioni (comprese le organizzazioni internazionali) che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, si inserisce la condizione che abbiano la volontà e la capacità di offrire protezione;
  • si prevede che la protezione contro persecuzioni o danni gravi debba   essere “effettiva” e “non temporanea”;
  • quanto alla protezione interna al Paese di origine (art. 8) viene chiarito che la possibilità per gli Stati di escludere dalla protezione chi, in una parte del territorio di origine, ha accesso alla protezione, è soggetta al fatto che la persona in questione possa legalmente e senza pericolo recarsi su quella parte di territorio e si possa ragionevolmente supporre che vi si stabilisca; viene aggiunto l’obbligo per gli Stati di disporre di informazioni precise e aggiornate, provenienti da fonti pertinenti (in particolare UNHCR e Ufficio europeo di sostegno per l’asilo) sulla situazione in quella parte del Paese di origine (art. 8 § 2); è eliminato il paragrafo 3, che prevedeva la possibilità per gli Stati di applicare il concetto di protezione interna “nonostante ostacoli tecnici al ritorno nel Paese di origine”;
  • viene chiarito che, per aversi un riconoscimento dello status di rifugiato, i motivi di persecuzione possono essere collegati tanto agli atti di persecuzione quanto alla mancanza di protezione contro tali atti (art. 9 § 3);
  • ai fini della determinazione dell’appartenenza a un determinato gruppo sociale o dell’individuazione delle caratteristiche proprie di tale gruppo, si  tiene debito conto delle considerazioni di genere, compresa l’identità di genere (art. 10 § 1 lett. d). Si tratta senza dubbio di una delle più importanti modifiche apportate dalla nuova Direttiva Qualifiche;
  • viene introdotta un’eccezione alla cessazione dello status di rifugiato (art. 11 § 3) e di protezione sussidiaria (art. 16 § 3) dovuta al venir meno delle circostanze che ne hanno determinato il riconoscimento, qualora la persona in questione possa invocare motivi derivanti da precedenti persecuzioni o danni gravi. Per quanto riguarda lo status di rifugiato, ciò è in linea con la Convenzione di Ginevra del 1951, art. 1 lett. C (5).


In materia di contenuto della protezione:

In generale, va detto che la nuova Direttiva avvicina il contenuto dello status di protezione sussidiaria a quello dello status di rifugiato, eliminando buona parte delle possibilità che gli Stati avevano di limitare l’accesso ad alcuni diritti ai soli rifugiati. 
Va tuttavia precisato anche che pochi Stati membri avevano effettivamente fatto uso di queste possibilità.

  • il permesso di soggiorno rilasciato ai beneficiari di protezione sussidiaria (e ai loro familiari) deve essere valido, in caso di rinnovo, per almeno due anni (art. 24). Si noti che la Commissione aveva proposto di portare anche la durata minima di questo permesso a tre anni, come per lo status di rifugiato;
  • circa il documento di viaggio per i titolari di protezione sussidiaria, viene eliminata la limitazione alle gravi ragioni umanitarie che rendano necessaria la loro presenza in un altro Stato, mentre rimane il requisito di trovarsi nell’impossibilità di ottenere un passaporto nazionale (art. 25 § 2);
  • in materia di accesso all’occupazione, all’assistenza sanitaria e agli strumenti di integrazione, lo status di protezione sussidiaria viene messo sullo stesso livello di quello di rifugiato (art. 26, 30 e 34);
  • quanto al riconoscimento delle qualifiche, che merita ora un articolo a parte (art. 28), oltre a garantire parità di trattamento con i cittadini, gli Stati devono anche adoperarsi per agevolare il pieno accesso a sistemi di valutazione, convalida e accreditamento dell’apprendimento precedente;
  • in materia di assistenza sanitaria, si aggiunge l’obbligo per gli Stati di fornire il necessario trattamento dei disturbi psichici (art. 30);
  • in materia di accesso all’alloggio, si prevede l’obbligo per gli Stati di adoperarsi per attuare politiche dirette a prevenire le discriminazioni nei confronti dei beneficiari di protezione internazionale e garantire pari opportunità.

Fra gli aspetti che invece non vengono modificati, si segnala qui soprattutto l’art. 15 della Direttiva Qualifiche, relativo alla definizione di “danno grave” come requisito per il riconoscimento della protezione sussidiaria. 
In particolare, la lett. c), interpretata nel febbraio 2009 dalla Corte di Giustizia UE nel famoso caso Elgafaji, necessitava forse di chiarimenti ulteriori da parte del legislatore che diminuissero le possibilità di applicazioni divergenti da parte dei singoli Stati. 
La Commissione però non se l’era sentita di avanzare proposte di modifica e dunque tutto rimane com’è, in attesa forse di nuove pronunce della Corte. 

La nuova Direttiva Qualifiche – o meglio, le disposizioni di questa che modificano la “vecchia” Direttiva Qualifiche – dovranno essere recepite dagli Stati membri vincolati entro il 21 dicembre 2013.
A decorrere da quella data, la Direttiva 2004/83/CE sarà abrogata, ma solo per gli Stati membri destinatari dalla nuova Direttiva Qualifiche. Si noti infatti che, come loro permesso dal relativo Protocollo annesso ai Trattati, il Regno Unito e l’Irlanda hanno scelto di non essere vincolate dalla Direttiva 2011/95/UE. Tali Stati continuano dunque a essere vincolati dalle norme della precedente Direttiva Qualifiche.
La Danimarca non è vincolata dalla Direttiva Qualifiche in virtù del Protocollo sulla sua posizione annesso ai Trattati.

Giurisprudenza della Corte di Giustizia UE

CGUE, C-465/07, Elgafaji, 17 febbraio 2009: la richiesta di un giudice olandese alla Corte di pronunciarsi in via pregiudiziale sull’art. 15 lett. c della Direttiva Qualifiche ha dato vita ad una delle pronunce più importanti della Corte di Giustizia UE in materia di asilo. Ciò non significa affatto che l’intervento della Corte abbia chiarito il punto e ulteriori richieste in merito sarebbero auspicabili.
La domanda del giudice nazionale, in sostanza, era se l’art. 15 c) debba essere interpretato nel senso che l’esistenza di minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria sia subordinata alla condizione che quest’ultimo fornisca la prova che egli è interessato in modo specifico a motivo di elementi peculiari della sua situazione.

La risposta della Corte è la seguente: l’esistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria non è subordinata alla condizione che quest’ultimo fornisca la prova di essere specifico oggetto di minaccia a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale; l’esistenza di una siffatta minaccia può essere considerata, in via eccezionale, provata qualora il grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso, valutato dalle autorità nazionali competenti raggiunga un livello così elevato che sussistono fondati motivi di ritenere che un civile rientrato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia.


CGUE, C-175/08, Abdulla, 2 marzo 2010: il giudice aveva rivolto alla Corte diverse questioni:
1) se l’art. 11, n. 1, lett. e), della Direttiva debba essere interpretato nel senso che lo status di rifugiato si estingue nel momento in cui vengano meno le circostanze alla base del fondato timore del rifugiato stesso di essere perseguitato, ai sensi dell’art. 2, lett. c), della direttiva stessa, in base al quale il riconoscimento era stato concesso, e non sussistano altri motivi di timore di «essere perseguitato» ai sensi dello stesso art. 2, lett. c), della direttiva.
2) se, quando le circostanze in base alle quali lo status di rifugiato è stato riconosciuto abbiano cessato di sussistere e le autorità competenti dello Stato membro verifichino che non ricorrono altre circostanze che giustifichino il fondato timore della persona interessata di essere perseguitata, per il medesimo motivo inizialmente esistente o per uno degli altri motivi elencati all’art. 2, lett. c), della direttiva, il criterio di probabilità per l’esame del rischio derivante da dette altre circostanze sia lo stesso criterio applicato ai fini della concessione dello status di rifugiato.
3) se l’art. 4, n. 4, della direttiva, nella misura in cui fornisce indicazioni quanto alla portata, in termini di forza probatoria, di atti o minacce precedenti di persecuzione, trovi applicazione quando le autorità competenti considerino di revocare lo status di rifugiato ai sensi dell’art. 11, n. 1, lett. e), della direttiva e l’interessato, per giustificare il permanere di un fondato timore di persecuzione, faccia valere circostanze diverse da quelle sulla cui base era stato riconosciuto come rifugiato.

Queste le risposte della Corte:
1) L’art. 11, n.1, lett. e), della direttiva deve essere interpretato nel senso che:
– una persona perde lo status di rifugiato quando, considerato un cambiamento delle circostanze avente un carattere significativo e una natura non temporanea, occorso nel paese terzo interessato, vengano meno le circostanze alla base del fondato timore della persona stessa di essere perseguitata a causa di uno dei motivi di cui all’art.2, lett. c), della direttiva 2004/83, circostanze a seguito delle quali essa è stata riconosciuta come rifugiata, e non sussistano altri motivi di timore di «essere perseguitat
[a]» ai sensi dell’art. 2, lett. c), della direttiva 2004/83;
– ai fini della valutazione di un cambiamento delle circostanze, le autorità competenti dello Stato membro devono verificare, tenuto conto della situazione individuale del rifugiato, che il soggetto o i soggetti che offrono protezione di cui all’art. 7, n. 1, della direttiva 2004/83 abbiano adottato adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori, che quindi dispongano, in particolare, di un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione e che il cittadino interessato, in caso di cessazione dello status di rifugiato, abbia accesso a detta protezione;
– i soggetti che offrono protezione ex art. 7, n.1, lett. b), della direttiva 2004/83 possono comprendere organizzazioni internazionali che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, anche per mezzo della presenza di una forza multinazionale su tale territorio.
2) Quando le circostanze in base alle quali lo status di rifugiato è stato riconosciuto abbiano cessato di sussistere e le autorità competenti dello Stato membro verifichino che non ricorrono altre circostanze che giustifichino il fondato timore della persona interessata di essere perseguitata, per il medesimo motivo di quello inizialmente rilevante o per uno degli altri motivi elencati all’art. 2, lett. c), della direttiva 2004/83, il criterio di probabilità per l’esame del rischio derivante da dette altre circostanze è lo stesso criterio applicato ai fini della concessione dello status di rifugiato.
3) L’art. 4, n. 4, della direttiva, nella misura in cui fornisce indicazioni quanto alla portata, in termini di forza probatoria, di atti o minacce precedenti di persecuzione, può applicarsi quando le autorità competenti intendano revocare lo status di rifugiato ai sensi dell’art. 11, n. 1, lett. e), della direttiva 2004/83 e l’interessato, per giustificare il permanere di un fondato timore di persecuzione, faccia valere circostanze diverse da quelle sulla cui base era stato riconosciuto come rifugiato. Tuttavia, ciò potrà di regola verificarsi solamente quando il motivo di persecuzione sia diverso da quello considerato al momento del riconoscimento dello status di rifugiato e vi siano atti o minacce di persecuzione precedenti collegati al motivo di persecuzione esaminato in tale fase.


CGUE, C-31/09, Bobol, 17 giugno 2010: il giudice del rinvio chiede di sapere se, ai fini dell’applicazione dell’art. 12, n. 1, lett. a), primo periodo, della direttiva, una persona benefici della protezione o dell’assistenza di un’agenzia delle Nazioni Unite diversa dall’UNHCR per il solo fatto che tale persona ha diritto a detta protezione o a detta assistenza, o se sia necessario che sia effettivamente ricorsa alla protezione o all’assistenza. L’interpretazione della Corte privilegia la seconda ipotesi.


CGUE, C-57/09 e C-101/09, B & D, 9 novembre 2010: il giudice nazionale rivolge diverse questioni alla Corte:
1) se ci si trovi dinanzi ad un «reato grave di diritto comune» o ad «atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite» ai sensi dell’art. 12, n. 2, lett. b) o c), della direttiva laddove la persona considerata abbia fatto parte di un’organizzazione che è presente nell’elenco di cui all’allegato della posizione comune 2001/931 per il suo coinvolgimento in atti terroristici e tale persona abbia attivamente sostenuto la lotta armata condotta da tale organizzazione, eventualmente occupando in quest’ultima una posizione preminente.
2) se l’esclusione dallo status di rifugiato ai sensi dell’art. 12, n. 2, lett. b) o c), della direttiva sia subordinata alla circostanza che la persona considerata continui a rappresentare un pericolo per lo Stato membro d’accoglienza.
3) se l’esclusione dallo status di rifugiato in applicazione dell’art. 12, n. 2, lett. b) o c), della direttiva sia subordinata ad un esame della proporzionalità alla luce del caso di specie.
4) se sia compatibile con la direttiva, ai sensi del suo art. 3, la circostanza che uno Stato membro riconosca un diritto d’asilo, a titolo del suo diritto costituzionale, ad una persona esclusa dallo status di rifugiato in applicazione dell’art. 12, n. 2, della direttiva.

Queste le risposte della Corte:
1) L’art. 12, n. 2, lett. b e c), della direttiva deve essere interpretato nel senso che:
– la circostanza che una persona abbia fatto parte di un’organizzazione iscritta nell’elenco di cui all’allegato della posizione comune del Consiglio 27 dicembre 2001, 2001/931/PESC, relativa all’applicazione di misure specifiche per la lotta al terrorismo, per il suo coinvolgimento in atti terroristici e abbia attivamente sostenuto la lotta armata condotta da detta organizzazione non costituisce automaticamente un motivo fondato per ritenere che la persona considerata abbia commesso un «reato grave di diritto comune» o «atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite»;
– la constatazione, in siffatto contesto, della sussistenza di fondati motivi per ritenere che una persona abbia commesso un reato del genere o si sia resa colpevole di tali atti è subordinata ad una valutazione caso per caso di fatti precisi al fine di determinare se atti commessi dall’organizzazione considerata rispondano alle condizioni fissate da dette disposizioni e se una responsabilità individuale nel compimento di tali atti possa essere ascritta alla persona considerata, tenuto conto del livello di prova richiesto dal citato art. 12, n. 2.
2) L’esclusione dallo status di rifugiato in applicazione dell’art. 12, n. 2, lett. b) o c), della direttiva 2004/83 non è subordinata alla circostanza che la persona considerata rappresenti un pericolo attuale per lo Stato membro di accoglienza.
3) L’esclusione dallo status di rifugiato ai sensi dell’art. 12, n. 2, lett. b) o c), della direttiva 2004/83 non è subordinata ad un esame di proporzionalità alla luce del caso di specie.
4) L’art. 3 della direttiva 2004/83 deve essere interpretato nel senso che gli Stati membri possono riconoscere un diritto d’asilo in forza del loro diritto nazionale ad una persona esclusa dallo status di rifugiato ai sensi dell’art. 12, n. 2, di tale direttiva, purché quest’altro tipo di protezione non comporti un rischio di confusione con lo status di rifugiato ai sensi della stessa direttiva.



CGUE, C-71/11 e C-99/11, Y e Z, 5 settembre 2012: domanda di pronuncia pregiudiziale rivolta alla Corte da un giudice tedesco che ha sottoposto le seguenti domande:

1) Se l’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva [Qualifiche] debba essere interpretato nel senso che non è necessariamente ravvisabile un atto di persecuzione nell’accezione della succitata norma in qualunque lesione della libertà di religione che costituisca una violazione dell’articolo 9 della CEDU, e che invece una violazione grave della libertà di religione quale diritto umano fondamentale sussista solo quando ne sia colpito il nucleo essenziale.

2) Nel caso in cui la questione sub 1) debba essere risolta affermativamente:
a) Se il nucleo essenziale della libertà di religione sia circoscritto alla professione del proprio credo e alle pratiche religiose nell’ambito domestico e di vicinato, o se sia ravvisabile un atto di persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva [Qualifiche] anche nel fatto che nel paese di origine l’esercizio della fede in pubblico comporta un pericolo per l’incolumità, la vita o la libertà fisica e il richiedente vi rinuncia per tali ragioni.
b) Qualora il nucleo essenziale della libertà di religione possa comprendere anche talune pratiche religiose svolte in pubblico:
– se, in questo caso, ai fini di una grave violazione della libertà di religione, sia sufficiente che il richiedente percepisca la suddetta pratica della fede come irrinunciabile al fine di preservare la propria identità religiosa;
– o se, in aggiunta, sia necessario che la comunità religiosa cui il richiedente appartiene consideri la suddetta pratica come un elemento centrale della propria dottrina religiosa;
– o  se ulteriori restrizioni possano risultare da altre circostanze, ad esempio dalla situazione generale nel paese di origine.

3) Nel caso in cui la questione sub 1) debba essere risolta affermativamente:
Se sussista un timore fondato di essere perseguitato nell’accezione dell’articolo 2, lettera c), della direttiva [Qualifiche], qualora sia accertato che il richiedente, una volta tornato nel paese di origine, compirà talune pratiche religiose – esulanti dal nucleo essenziale della libertà di religione – sebbene queste comportino un pericolo per la sua incolumità, vita o libertà fisica, oppure se ci si possa ragionevolmente aspettare che il richiedente rinunci a tali pratiche.

La Corte decide di esaminare congiuntamente il primo e il secondo quesito e fornisce le seguenti risposte:
1) l’art. 9, par. 1, lett. a) della Direttiva Qualifiche deve essere interpretato nel senso che:
non è ravvisabile un «atto di persecuzione», nell’accezione di detta norma della direttiva, in qualunque lesione del diritto alla libertà di religione che violi l’articolo 10, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea;
– l’esistenza di un atto di persecuzione può risultare da una violazione della manifestazione esteriore di tale libertà, e
– per valutare se una lesione del diritto alla libertà di religione che viola l’articolo 10, paragrafo 1, della Carta possa costituire un «atto di persecuzione», le autorità competenti devono verificare, alla luce della situazione personale dell’interessato, se questi, a causa dell’esercizio di tale libertà nel paese d’origine, corra un rischio effettivo, in particolare, di essere perseguitato, o di essere sottoposto a trattamenti o a pene disumani o degradanti ad opera di uno dei soggetti indicati all’articolo 6 della direttiva.

2) L’articolo 2, lettera c), della direttiva deve essere interpretato nel senso che il timore del richiedente di essere perseguitato è fondato quando le autorità competenti, alla luce della situazione personale del richiedente, considerano ragionevole ritenere che, al suo ritorno nel paese d’origine, egli compirà atti religiosi che lo esporranno ad un rischio effettivo di persecuzione. Nell’esaminare su base individuale una domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, dette autorità non possono ragionevolmente aspettarsi che il richiedente rinunci a tali atti religiosi.