Lo scorso 6 novembre la Corte di Giustizia dell’UE ha pronunciato un’altra sentenza di interpretazione del Regolamento Dublino II, a seguito di una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte da un giudice austriaco.

Come era ampiamente previsto, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona – che ha esteso la possibilità per i giudici nazionali di chiedere alla Corte di interpretare la normativa europea in materia di immigrazione e asilo – la giurisprudenza dei giudici di Lussemburgo in questo campo sta cominciando ad accumularsi piuttosto rapidamente.



Si tratta certamente di un buon segno dal punto di vista dell’uniformità dell’interpretazione delle regole europee in quanto, come spesso ripetiamo, le decisioni della Corte di Giustizia sono vincolanti non solo per il giudice che ha richiesto l’interpretazione, ma per tutti gli Stati membri. 

Anche questo dunque contribuisce alla costruzione del Sistema europeo comune di asilo.

Il caso di cui ci occupiamo oggi (Causa K, C-245/11) è poi particolarmente interessante in quanto riguarda l’interpretazione della cosiddetta “clausola umanitaria” prevista dall’art. 15 del Regolamento Dublino e perché, come vedremo meglio in seguito, la versione italiana del testo ci pare poco felice, per non dire fuorviante, rispetto alle versioni in altre lingue (fino a trasformare un obbligo per gli Stati in una mera facoltà!).

Ripercorriamo brevemente la vicenda.
K. è una signora cecena che presentava nel 2008 una domanda di asilo in Polonia. Senza attendere la risposta, K. si spostava in Austria, dove presentava la sua seconda domanda
Lì vivevano già il figlio di K., con sua moglie (la nuora di K.) e i loro tre figli minori (di cui un neonato), già riconosciuti dall’Austria come rifugiati.
La nuora di K., peraltro, soffre di una grave malattia e disabilità a seguito di un evento traumatico che, se scoperto, la porterebbe oltretutto a subire trattamenti violenti da parte dei membri maschi della famiglia.
La nuora è pertanto dipendente dalla signora K. che, oltre ad essere sua confidente ed amica, ha anche una competenza professionale nel campo della cura dei bambini.

Le autorità austriache decidevano comunque di chiedere alla Polonia di riprendere in carico la signora K. e la Polonia acconsentiva. 
K. presentava ricorso e la Corte austriaca decideva di interrompere il procedimento e di chiedere alla Corte di Giustizia UE una pronuncia pregiudiziale sulla base delle seguenti domande:
  1. se l’art. 15 del Regolamento Dublino II (cosiddetta “clausola umanitaria”) debba essere interpretato nel senso che uno Stato membro, che non sarebbe competente all’esame della domanda di asilo in base ai criteri del Regolamento, lo divenga obbligatoriamente in un caso come quello di specie e se ciò valga anche in mancanza di una specifica richiesta in tal senso da parte dello Stato competente;

  2. se l’art. 3 secondo comma del Regolamento Dublino II (cosiddetta “clausola di sovranità”) debba essere interpretato nel senso che uno Stato membro, che non sarebbe competente all’esame della domanda di asilo in base ai criteri del Regolamento, lo divenga obbligatoriamente quando la competenza altrimenti prevista comporti la violazione dell’articolo 3 o dell’articolo 8 della CEDU (articolo 4 o 7 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE) e se, in questo caso, si possa far ricorso a una nozione di «trattamento inumano» e di «famiglia» diversa, e più ampia, rispetto a quella applicata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Circa la prima questione, la Corte nota innanzitutto che, mentre l’art. 15 primo paragrafo del Regolamento Dublino permette ampia discrezione agli Stati (“Qualsiasi Stato membro può…”), il secondo paragrafo dello stesso articolo – cioè laddove si parla di persona dipendente dall’assistenza di un’altra a motivo di una gravidanza, maternità recente, malattia grave, serio handicap o età avanzata – restringe notevolmente tale potere, in quanto recita che in questo caso gli Stati 


shall normally keep or bring together the asylum seeker with another relative present in the territory of one of the Member States“.


Dobbiamo fare riferimento al testo inglese perché, a nostro parere, la versione italiana del Regolamento Dublino su questo punto non è corretta, in quanto trasforma un obbligo per gli Stati (“shall”, per quanto moderato da quel “normally”) in una facoltà

Il testo italiano infatti recita: 

gli Stati membri possono lasciare insieme o ricongiungere il richiedente asilo e un altro parente che si trovi nel territorio di uno degli Stati membri


Obbligo o facoltà? La versione italiana dell’art. 15(2) del Regolamento Dublino



L’art. 15 (2) del Regolamento Dublino recita:

Nel caso in cui la persona interessata sia dipendente dall’assistenza dell’altra a motivo di una gravidanza, maternità recente, malattia grave, serio handicap o età avanzata, gli Stati membri possono lasciare insieme o ricongiungere il richiedente asilo e un altro parente che si trovi nel territorio di uno degli Stati membri, a condizione che i legami familiari esistessero nel paese d’origine.


Si tratterebbe dunque di una facoltà (“gli Stati membri possono“).

Le altre versioni di cui riusciamo a comprendere il significato, tuttavia, non contengono assolutamente una facoltà, ma un obbligo.

Abbiamo già detto sopra del testo inglese.

Ma lo stesso dicasi per il testo in francese:”les États membres laissent normalement ensemble ou rapprochent“. 
E per quello in spagnolo: “los Estados miembros normalmente mantendrán reunido o agruparán“.


Si veda peraltro il paragrafo 10 della sentenza di cui ci occupiamo oggi. Nella versione italiana compare, fra parentesi
[], il testo dell’art.15(2) come dovrebbe correttamente essere, privo del verbo “potere”.

Riteniamo pertanto che si tratti di un errore della versione italiana dell’art. 15(2) del Regolamento Dublino.



Non si tratta ovviamente di un particolare di poco conto in quanto, qualora si riuscisse a provare che una data situazione ricade nell’ambito di applicazione dell’art. 15 (2), in quel caso lo Stato interessato avrebbe non la facoltà ma l’obbligo (eccetto casi eccezionali) di assumersi la responsabilità di esaminare il caso.
E’ vero che la nuova versione del Regolamento Dublino è ormai prossima all’adozione e che nel testo che dovrebbe essere votato dai co-legislatori la frase “incriminata” non compare più. Ma almeno fino all’entrata in vigore del nuovo Regolamento Dublino crediamo che a tale errore debba essere posto rimedio.



Quanto all’interpretazione dell’art. 15 secondo paragrafo del Regolamento Dublino, questi sono i passaggi a nostro avviso più importanti del ragionamento della Corte:
  • il fatto che il richiedente asilo non si trovi più nel territorio dello Stato membro responsabile in base ai criteri del Regolamento è irrilevante in quanto nel testo si fa riferimento espressamente a “lasciare insieme” oltre che a “ricongiungere”, ammettendo dunque la possibilità che la clausola si applichi anche quando il richiedente e il familiare si trovino già assieme in un Paese diverso da quello responsabile (par.29, 30 della sentenza);
  • il testo dell’art. 15 (2) poi non esclude la possibilità che la persona dipendente dall’assistenza dell’altra non sia il richiedente asilo ma, come nel caso di specie, il familiare; tale interpretazione è conforme all’obiettivo generale della clausola umanitaria, che è quello di ricongiungere membri di una stessa famiglia, quando necessario per ragioni umanitarie (par. 33-35);
  • benché la definizione di “familiari” di cui all’art. 2 lett. i) del Regolamento Dublino non faccia riferimento né alla nuora, né ai nipoti di un richiedente asilo, essi possono essere ricompresi nel generico concetto di “altro parente” contenuto nell’art. 15 secondo paragrafo, che deve essere necessariamente più ampio del gruppo dei “familiari”, come definiti all’art. 2 lett. i) (par. 38-43);
  • pertanto, qualora insorgano situazioni di dipendenza che rientrano fra quelle previste dall’art. 15 (2), se le persone si trovano in uno Stato membro diverso rispetto a quello competente in base ai criteri del Regolamento Dublino, tale Stato è “di regola” obbligato a lasciare assieme tali persone, a patto che il legame familiare esistesse già nel Paese di origine (par. 44). Esso dunque diventa lo Stato competente.
    Quanto alle parole “di regola”, esse vanno intese nel senso che uno Stato può derogare al suddetto obbligo solo in presenza di una situazione eccezionale; situazione che, nel caso di specie, non è stata menzionata dal giudice del rinvio (par. 46);
  • infine, con riferimento all’ultima parte della prima domanda, cioè se sia necessaria o meno una specifica richiesta rivolta dallo Stato originariamente competente allo Stato dove il richiedente si trova, la Corte fa riferimento all’obbligo per gli Stati membri di applicare il Regolamento Dublino in modo da garantire l’effettivo accesso alle procedure e da non pregiudicare l’obiettivo di un rapido espletamento delle domande (par. 48).
    Qualora sia dimostrata una situazione di dipendenza ai sensi dell’art. 15(2) del Regolamento Dublino, le autorità dello Stato membro ove si trovano le persone non possono ignorare tale situazione; pertanto una specifica richiesta da parte dello Stato originariamente responsabile, oltre a non comparire nel testo dell’art. 15 (2), finirebbe solo per rallentare la procedura per la determinazione dello Stato competente (par. 49-52).

Questa dunque la risposta della Corte di Giustizia dell’UE alla prima domanda sottoposta dal giudice austriaco:

In circostanze quali quelle del procedimento principale, l’articolo 15, paragrafo 2, del regolamento [Dublino] deve essere interpretato nel senso che, uno Stato membro che non è competente per l’esame di una domanda d’asilo in base ai criteri elencati al capo III di tale regolamento lo diventa. Spetta allo Stato membro divenuto lo Stato membro competente ai sensi del medesimo regolamento assumere gli obblighi connessi a tale competenza. Esso ne informa lo Stato membro anteriormente competente. Tale interpretazione del suddetto articolo 15, paragrafo 2, si applica anche quando lo Stato membro che era competente in forza dei criteri elencati al capo III di detto regolamento non ha presentato richiesta in tal senso conformemente al paragrafo 1, seconda frase, del medesimo articolo.”


Tenuto conto della risposta fornita alla prima questione, la Corte ritiene di non dover rispondere alla seconda questione.