Dopo aver pubblicato alcune settimane fa la nostra analisi e i nostri commenti alle Decisioni in materia di ricollocazione, oggi ci occupiamo di un’altra delle risposte che l’Unione europea sta tentando di dare alla crisi dell’asilo in Europa

Parliamo dell’elenco comune dell’UE di “Paesi di origine sicuri”. 
Di cosa si tratta? Lo spieghiamo nelle prossime righe, entrando nel dettaglio della proposta della Commissione europea e proponendo alcune conclusioni.

Premessa
Intanto occorre dire che, ad oggi, si tratta ancora, come detto sopra, di una proposta. Più precisamente, di una proposta di Regolamento, finalizzato a stabilire un elenco comune a livello UE di Paesi terzi considerati “Paesi di origine sicuri”, modificando la Direttiva Procedure. Tale proposta dovrà essere discussa, secondo la c.d. procedura ordinaria – dunque con il coinvolgimento a pieno titolo del Parlamento europeo – ed approvata, prima di entrare in vigore. La base giuridica è l’art. 78 par. 2 lett. d) del TFUE, che è la base giuridica per l’adozione di misure sulle procedure comuni per l’ottenimento e la perdita della protezione internazionale.
Per quanto riguarda gli Stati membri che hanno una “posizione particolare” in materia di politiche europee di immigrazione e asilo, il Regno Unito e l’Irlanda hanno la possibilità di partecipare all’adozione di questo Regolamento ed essere dunque vincolati dallo stesso una volta che sarà approvato ed entrerà in vigore; la Danimarca invece non partecipa. 

Cosa si intende per “Paese di origine sicuro”?


Si tratta di Paesi che, sulla base dell’esistenza di un sistema democratico e del comprovato rispetto del diritto internazionale in materia di diritti umani, vengono designati come “sicuri” per i loro cittadini, con la conseguenza di presumere che le domande di asilo da questi presentate siano infondate. Tali designazioni esistono (a livello nazionale) fin da prima dell’adozione della “vecchia” Direttiva Procedure (Direttiva 2005/85/CE), la quale infatti permetteva (e continua a permettere anche nella nuova versione) agli Stati di mantenere normative che consentano di designare a livello nazionale certi Stati come sicuri. 
La nuova Direttiva Procedure contiene – all’allegato 1 – alcune indicazioni sulle condizioni alle quali un Paese di origine può essere considerato “sicuro”. In particolare, si prevede che debba potersi dimostrare che “non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni

[…] né tortura o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. 
Per effettuare tale valutazione, lo stesso allegato precisa poi che si debba tenere in considerazione, tra l’altro, la “misura in cui viene offerta protezione contro le persecuzioni ed i maltrattamenti mediante: 
a) le pertinenti disposizioni legislative e regolamentari del paese ed il modo in cui sono applicate; 
b) il rispetto dei diritti e delle libertà stabiliti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e/o nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e/o nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, in particolare i diritti ai quali non si può derogare a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, di detta Convenzione europea; 
c) il rispetto del principio di «non-refoulement» conformemente alla convenzione di Ginevra; 
d) un sistema di ricorsi effettivi contro le violazioni di tali diritti e libertà.

Quali sono le conseguenze della designazione di un Paese di origine come “sicuro”?
Sgombriamo subito il campo da un equivoco. Non è vero, come talvolta si sente, che sia possibile evitare di esaminare le domande di asilo di cittadini provenienti da un Paese di origine sicuro. Tanto meno è possibile impedire che i cittadini di questo Paese considerato come sicuro possano presentare una domanda di asilo. Qualora si verificassero, episodi di questo tipo sarebbero chiaramente illegittimi.
Ciò non significa che le conseguenze della designazione di un Paese di origine come “sicuro” sia priva di conseguenze importanti. Tutt’altro.
Ciò che la normativa UE consente di fare, qualora un richiedente asilo abbia la cittadinanza di (ovvero sia un apolide che in precedenza soggiornava abitualmente in) un Paese designato come “Paese di origine sicuro”, è di fare ricorso a una “procedura accelerata” o “in frontiera”, sulla base della presunzione che la sua domanda di asilo sia infondata. Tale procedura deve comunque svolgersi nel rispetto dei diritti e delle garanzie previsti dalla Direttiva e prevedere termini “ragionevoli”. 
Nel rimandare alla nostra scheda sulla Direttiva Procedure (e in particolare all’analisi degli art. 31, 36 e 37) per gli approfondimenti del caso, ci limitiamo qui a ricordare che l’esame della domanda deve essere sempre individuale e che deve essere comunque data la possibilità al richiedente asilo di confutare la presunzione di sicurezza del suo Paese, adducendo gravi motivi per ritenere il contrario. 

Molto importanti le conseguenze anche in fase di ricorso. Infatti, l’art. 46 della Direttiva Procedure consente agli Stati di non garantire alle persone inserite in una procedura accelerata, la sospensione automatica dell’efficacia di una decisione di ritenere infondata una domanda di asilo in prima istanza. La direttiva lascia infatti agli Stati la possibilità di prevedere nel proprio diritto interno che sia il giudice ad esprimersi sul diritto del ricorrente a permanere sul territorio durante l’esame del ricorso. Al contrario, per chi è inserito in una procedura ordinaria la direttiva prevede l’obbligo di garantire tale sospensione automatica in attesa dell’esito del ricorso.

Esistono già liste di Paesi di origine sicuri?
Sì, ma solo a livello nazionale, non a livello europeo. La “vecchia” Direttiva Procedure (2005) aveva inserito la possibilità di arrivare a tale lista europea, ma quella previsione è stata annullata dalla Corte di Giustizia per ragioni procedurali che non stiamo ad approfondire in questa sede. La “nuova” Direttiva Procedure invece non prevede, ad oggi, tale lista ma solo, come detto, la possibilità per gli Stati di introdurre o mantenere nel loro ordinamento interno una normativa che consenta di designare a livello nazionale Paesi di origine sicuri.
Diversi Stati membri ad oggi applicano il concetto di Paese di origine sicuro. Secondo una nota informativa della Commissione europea, sono: Austria, Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Lettonia, Malta, Paesi Bassi, Slovacchia, Regno Unito. A questi vanno poi aggiunti altri Stati membri – Bulgaria, Cipro, Grecia, Lituania, Portogallo, Romania e Slovenia – che prevedono il concetto di Paese di origine nel loro ordinamento interno ma non lo applicano nella pratica. 
Dei 15 Stati membri che applicano il concetto, solo 10 hanno effettivamente una lista nazionale, mentre gli altri 5 applicano il concetto caso per caso. Leggendo le liste nazionali di questi 10 Stati membri, emerge come alcuni Paesi di origine siano molto ricorrenti: tralasciando gli Stati appartenenti all’Unione europea e altri Paesi fortemente industrializzati come Stati Uniti, Canada, Giappone, Australia, i Paesi che compaiono più volte sono Ghana (talvolta limitatamente agli uomini), Bosnia, Serbia, Macedonia, Montenegro, Albania, Kosovo, India, Senegal e Mongolia. Di questi Paesi, sei (Bosnia, Serbia, Macedonia, Montenegro, Albania, Kosovo) sono inclusi, come si vedrà meglio sotto, anche nella lista comune europea. 
Al contrario, la Turchia – che è il settimo Paese che la Commissione propone di inserire nell’elenco europeo comune – non compare in alcuna lista nazionale di questi 10 Stati membri. Solo la Bulgaria, che però, come detto sopra, non applica nella pratica tale concetto, prevede la Turchia all’interno della sua lista.
Per il resto, le liste nazionali divergono molto, con alcuni Paesi considerati come “sicuri” solo da uno o due Stati membri. 

Perchè un elenco comune europeo di “Paesi di origine sicuri”?
Quello che la Commissione europea propone di fare con questo nuovo Regolamento è dunque di modificare la Direttiva Procedure per aggiungere alle liste di Paesi di origine sicuri che già alcuni Stati membri hanno nel loro ordinamento, un elenco comune UE di Paesi che a quel punto sarebbero considerati “sicuri” ai sensi della Direttiva Procedure da tutti gli Stati membri. Con le conseguenze che abbiamo descritto sopra in termini di procedura, sia in prima istanza, sia in fase di eventuale ricorso.
Gli obiettivi dichiarati nel preambolo del Regolamento (in particolare al Considerando n° 4) sono quelli di: 

  • rinforzare l’utilizzo delle disposizioni contenute nella Direttiva Procedure sui Paesi di origine sicuri, al fine di velocizzare l’esame di domande presumibilmente infondate e migliorare l’efficienza delle procedure per l’esame delle domande di protezione internazionale;
  • ridurre le differenze nelle liste nazionali, limitando quindi le disparità di trattamento fra richiedenti asilo che provengono dallo stesso Paese (almeno per quanto riguarda i Paesi elencati in questo Regolamento);
  • limitare i movimenti secondari fra Stati membri.


Quali sono i Paesi che la Commissione propone di considerare come “Paesi di origine sicuri”?
Si tratta di 7 Paesi, elencati nell’allegato 1: Albania, Bosnia, Macedonia, Kosovo, Montenegro, Serbia, Turchia. Nell’introduzione alla proposta di Regolamento e nel preambolo di quest’ultimo la Commissione europea fornisce le motivazioni sull’individuazione di questi Paesi e le fonti consultate per arrivare a questa conclusione (in particolare i report dell’European External Action Service, dell’EASO e dell’UNHCR, nonché degli stessi Stati membri).
Il Paese evidentemente più “problematico” da questo punto di vista è la Turchia, i cui cittadini che chiedono asilo nell’UE, secondo le ultime statistiche di Eurostat, ricevono una protezione nel 23% dei casi. Tuttavia, la Commissione giustifica – si veda il Considerando n° 16 del preambolo – l’inserimento della Turchia in questa lista con il riferimento al fatto che tale Paese è parte dei principali trattati internazionali in materia di diritti umani, che in Turchia esiste una normativa che protegge dalla persecuzione e dalle discriminazioni, che su 2.899 ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo presentati contro questo Stato, si è avuta una condanna in soli 94 casi e che la Turchia è candidata all’ingresso nell’UE.
Sempre nell’introduzione al Regolamento, la Commissione spiega come questa lista sia solo un primo passo e si riserva la possibilità di proporre successivamente l’inserimento di altri Paesi come Bangladesh (14% di protezione secondo gli ultimi dati Eurostat), Pakistan (28%) e Senegal (31%).
Nella proposta, si prevede poi l’obbligo per la Commissione di rivedere a intervalli regolari la situazione nei Paesi contenuti nell’elenco comune, basandosi su varie fonti di informazioni. Ogni eventuale modifica alla lista dovrà comunque essere adottata secondo la procedura ordinaria. Tuttavia, la Commissione potrà – in caso di cambi improvvisi della situazione in uno Paese terzo incluso nell’allegato – sospendere per un periodo di un anno quel Paese dalla lista. 

Conclusioni
Come abbiamo visto, designare un Paese di origine come “sicuro” ha delle conseguenze molto pesanti sia sui richiedenti asilo (che devono ribaltare, in poco tempo, una presunzione di infondatezza della loro domanda di asilo), sia su chi deve esaminare le domande in tempi stretti e con il rischio di errori di valutazione fatali (a maggior ragione se si considera che il ricorso contro una decisione negativa potrebbe non avere effetti sospensivi). Non a caso, tale concetto è molto criticato dalle ONG (si veda per tutte questo commento di ECRE). La Commissione europea giustifica questa proposta innanzitutto con l’obiettivo di rinforzare l’utilizzo delle disposizioni contenute nella Direttiva Procedure sui Paesi di origine sicuri, al fine di velocizzare l’esame di domande presumibilmente infondate e migliorare l’efficienza delle procedure per l’esame delle domande di protezione internazionale.
Se da un lato, in un periodo di forte stress dei sistemi di asilo, stimolare gli Stati membri a dotarsi di elenchi e procedure che permettano un esame più rapido di quelle domande considerate prima facie infondate può effettivamente contribuire a una maggiore efficienza e armonizzazione a livello europeo, dall’altro – alla luce delle possibili conseguenze sui richiedenti asilo – diventa decisivo giustificare in maniera molto precisa il perché dell’inserimento di un Paese in un elenco di Paesi di origine sicuri. La Direttiva Procedure, infatti, fissa una serie di requisiti e fornisce alcune indicazioni su come effettuare tale valutazione. Tuttavia, ci sembra che le giustificazioni addotte dalla Commissione europea a sostegno della sua proposta siano alquanto scarse. In questo senso, il caso della Turchia è emblematico. Non è certo necessario ripercorrere qui tutto quanto avvenuto recentemente e ci limitiamo pertanto a segnalare questo recente rapporto (della stessa Commissione europea) che segnala in quel Paese numerosi problemi in materia di discriminazione, libertà di espressione e di assemblea, oltre che arretramenti nel rispetto dello stato di diritto e dei diritti fondamentali. Allo stato attuale, dunque, la proposta di inserimento della Turchia in questo elenco comune europeo di Paesi di origine sicuri ci pare frutto di ragionamenti che nulla hanno a che vedere con i diritti umani ma che rispondono a logiche e strategie molto diverse. 
Più in generale, la mancanza di indicatori precisi e di argomentazioni decisamente più solide a giustificazione dell’inserimento di un Paese o di un altro in questa futura lista rischia, anche in prospettiva, di lasciare troppo spazio a considerazioni di opportunità politica a scapito di valutazioni sul rispetto del diritto internazionale in materia di diritti umani.


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Per approfondire si veda anche: European Parliament, Briefing – Safe countries of origin. Proposed common EU list