Il 9 aprile la IV Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha emesso una sentenza, non ancora definitiva (le parti hanno tre mesi di tempo per presentare un ricorso), avente ad oggetto l’espulsione a Kabul di due richiedenti asilo afghani che si erano visti rigettare le rispettive domande di protezione internazionale dalle autorità britanniche


La sentenza è molto interessante in quanto ci fornisce l’opinione attuale della Corte con riferimento ad una possibile violazione dell’art. 3 CEDU in occasione di:
qualunque espulsione verso l’Afghanistan;
espulsione verso Kabul di persone che hanno a vario titolo collaborato con la comunità internazionale in Afghanistan;

oltre che, ovviamente, in caso di espulsione verso Kabul dei ricorrenti.



La storia dei due ricorrenti, riunita dalla Corte in un solo caso (H. e B. contro Regno Unito, Ricorsi n° 70073/10 e 44539/11), si può riassumere brevemente così:

1) Il primo ricorrente – giunto nel Regno Unito il 30 ottobre 2008 – presentava domanda di asilo il 3 novembre 2008, temendo persecuzioni ad opera sia dei Talebani sia del gruppo Hezb-e-Islami, in quanto aveva lavorato (tra 2004 e 2005) come autista per la missione UNAMA (United Nations Assistance Mission in Afghanistan) e, tra 2005 e 2008, per l’UNDP (United Nations Development Programme). Un giorno egli riceveva una telefonata minacciosa ad opera di sconosciuti che gli intimavano di interrompere la sua collaborazione con gli stranieri. Un gruppo di Talebani, alcuni giorni dopo, si recava a casa sua e, il ricorrente assente, rapiva suo cugino. Avvisato telefonicamente dei fatti dai familiari, egli decideva così di lasciare l’Afghanistan e si rendeva in Pakistan, dove veniva poi raggiunto dalla famiglia. Tuttavia, sentendosi ancora in pericolo, egli decideva di scappare in Europa. La sua domanda di asilo veniva respinta sia in prima che in seconda istanza.

2) Il secondo ricorrente – giunto nel Regno Unito il 2 giugno 2011 – presentava domanda di asilo il giorno successivo, temendo persecuzioni da parte dei Talebani, in quanto aveva lavorato per le forze armate statunitensi e per l’ISAF (International Security Assistance Force) da febbraio 2009 ad aprile 2011. Egli depositava anche una serie di lettere da parte di ufficiali delle forze USA che confermavano il suo lavoro. Il ricorrente decideva di scappare dopo aver ricevuto una serie di minacce da parte dei Talebani, che gli intimavano di interrompere il suo lavoro con gli stranieri, e dopo aver visto un gruppo di Talebani armati fuori da casa sua. La sua domanda di asilo veniva respinta sia in prima che in seconda istanza.


La Corte, dopo aver deciso di unire i due casi per via delle evidenti similitudini, comincia il suo ragionamento ricordando come al solito i “principi generali” che regolano l’espulsione di cittadini stranieri.

Rimandiamo alla lettura di questo nostro post di qualche giorno fa (sul caso I.K. c. Austria) per una panoramica su questi principi. 

In questa sede ci limitiamo a sottolinearne altri due:

– Al fine di determinare se l’espulsione di un individuo comporti un rischio di maltrattamenti contrari all’art. 3 CEDU la Corte deve esaminare le possibili conseguenze sia dal punto di vista della situazione generale nel Paese di destinazione, sia dal punto di vista delle circostanze personali.

– La Corte non esclude la possibilità che una situazione generale di violenza in un Paese possa essere di un livello di intensità tale da far sì che ogni rinvio verso quel Paese sia in violazione dell’art.3 CEDU. Tuttavia, la Corte potrebbe adottare tale approccio solo nei casi più estremi di violenza generalizzata, laddove vi sia un rischio reale di subire un trattamento proibito dalla CEDU semplicemente in virtù dell’esposizione dell’individuo ad una tale violenza. 
E’ l’approccio adottato dalla Corte finora solo nel caso Sufi ed Elmi c. Regno Unito del 28 giugno 2011, che aveva ad oggetto la situazione in Somalia (V. nostro post a riguardo, qui).


Nel caso di specie, la Corte osserva innanzitutto che i ricorrenti non hanno affermato che il livello di violenza in Afghanistan è tale che ogni rinvio in quel Paese sarebbe in violazione dell’art. 3 CEDU. 
Inoltre, le autorità inglesi di prima e seconda istanza hanno esaminato attentamente i livelli di violenza in Afghanistan e sono arrivati alla conclusione che essi non sono tali da creare un rischio generalizzato di trattamenti proibiti dalla CEDU nei confronti di ogni persona espulsa.
La Corte non ha motivi di discostarsi da tali conclusioni e pertanto anch’essa ritiene che, al momento, in Afghanistan non vi sia una situazione di violenza generalizzata tale che vi sarebbe un rischio di trattamenti proibiti dall’art. 3 CEDU semplicemente in virtù di un’espulsione verso quel Paese (par. 93 della sentenza).




I ricorrenti hanno invece cercato di far valere le loro ragioni basandosi sul fatto che, in caso di espulsione, essi subirebbero maltrattamenti da parte dei Talebani per via del loro supporto alla comunità internazionale. Nell’esaminare queste pretese, la Corte osserva preliminarmente che il governo britannico intende espellere i due ricorrenti verso Kabul e che nessuno dei due ha avanzato elementi che possano far ritenere impossibile per loro stabilirsi in quella zona dell’Afghanistan.
Pertanto, la Corte si limita ad esaminare il rischio di un eventuale ritorno dei due ricorrenti a Kabul sulla base del loro precedente coinvolgimento con le forze internazionali in Afghanistan.

Prima di esaminare le circostanze specifiche di ciascun ricorrente, la Corte svolge alcune considerazioni generali, volte a valutare i rischi in caso di rinvio a Kabul di persone che abbiano a vario titolo collaborato con la comunità internazionale in Afghanistan.

Sulla base dei materiali a disposizione – la Corte cita in particolare: le Linee guida dell’UNHCR sulle necessità di protezione internazionale dei richiedenti asilo provenienti dall’Afghanistan del dicembre 2010; il rapporto dell’UNAMA (UN Assistance Mission in Afghanistan) del marzo 2011; il rapporto del Dipartimento di Stato americano sull’Afghanistan del maggio 2012; il rapporto (Operational Guidance Note) della Border Agency britannica sull’Afghanistan del giugno 2012; il rapporto del centro norvegese di ricerca informazioni sui Paesi di origine (Landinfo) del settembre 2011 – la Corte, pur ammettendo gli attacchi da parte dei Talebani e di altre forze antigovernative nei confronti dei civili in qualche modo collegati alla comunità internazionale, tuttavia afferma che – nel contesto di una valutazione dei rischi per i ricorrenti a Kabul – le conclusioni dei suddetti rapporti non sono tali da suggerire che i Talebani abbiano, allo stato attuale, le motivazioni o la capacità di “dare la caccia” ai collaboratori di basso livello della comunità internazionale a Kabul o in altre aree fuori dal controllo talebano. (par. 97)
Peraltro, è scarsamente provato che i Talebani stiano realmente attaccando le persone che hanno interrotto – come da loro richiesto – la collaborazione con la comunità internazionale. Anzi, il rapporto di Landinfo dice chiaramente che coloro che non collaborano più con le forze internazionali non sono una priorità per i Talebani. (par. 98) Parere che, secondo la Corte, è rafforzato anche dalle Linee Guida UNHCR del 2010.

Dunque, la Corte ritiene che gli individui che sono ritenuti di supporto alla comunità internazionale possono dimostrare un rischio reale e personale nei loro confronti da parte dei Talebani a Kabul a seconda delle circostanze individuali, della natura delle loro connessioni con la comunità internazionale e del loro profilo
La Corte non ritiene che i ricorrenti abbiano provato che chiunque abbia collaborato con le forze delle Nazioni Unite o degli USA, a Kabul, possa essere considerato a rischio a prescindere dal suo profilo e dal fatto che stia continuando o meno a collaborare con la comunità internazionale. (par. 100)


Passando quindi all’esame delle circostanze dei singoli ricorrenti, la Corte – non trovando ragioni di discostarsi dalle decisioni dei giudici inglesi – conclude che nessuno dei due ricorrenti è stato capace di dimostrare che vi sono ragioni sostanziali per ritenere che, nel suo caso specifico, egli sarebbe esposto a un rischio reale di subire trattamenti proibiti dall’art. 3 CEDU in caso di rinvio in Afghanistan. (par. 109 e 116)


Pertanto, la Corte decide, per sei voti a uno, che nel caso in cui i ricorrenti fossero rinviati in Afghanistan, non vi sarebbe una violazione dell’art. 3 CEDU
Tuttavia, fino a che la sentenza non diventerà definitiva, la Corte ritiene appropriato mantenere in vigore la richiesta fatta al governo britannico (ex art. 39 del Regolamento della Corte) di non procedere all’espulsione.


Allegata alla decisione si trova anche il parere discordante del giudice Kalatdjieva che, sostanzialmente, ritiene – al contrario della maggioranza – che le informazioni più recenti sulla situazione in Afghanistan indichino che i civili che lavorano per le Nazioni Unite, gli Stati Uniti e le Ong sono sempre più “presi di mira” dai Talebani, incluso a Kabul, e ritiene che la capacità del governo afgano di proteggere i ricorrenti non sia stata sufficientemente esaminata dalla Corte.


Vai alla sentenza nel caso H. e B. contro Regno Unito
Vai al nostro post sul caso Sufi ed Elmi contro Regno Unito